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I Carbonèr, dei frammenti di passato a Bondone
Il celebre compositore Gustav Mahler un giorno disse “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”.
A Bondone, piccolo borgo nel margine meridionale della Riserva di Biosfera Alpi Ledrensi e Judicaria, si intuisce di quanto abbiano preso in parola questa affermazione e di come l’abbiano declinata a modo loro. Salendo la strada che dalle sponde del Lago d’Idro porta al paesino arroccato sulla montagna, la nostra guida, Chiara, 25 anni, infaticabile promotrice del suo territorio, inizia a parlarci dei Carbonèr, figure mistiche, degli “alchimisti montani” che trasformano la legna in carbone.Si arriva in località Plòs, appena fuori dall’abitato di Bondone e subito arriva alle narici l’odore della fuliggine e della legna. Proprio a fianco della strada infatti si trovano svariate pile di legna e due strutture di legno, una grande che copre un enorme mucchio di terra nera, mentre in una più piccola sono seduti su vecchie sedie di legno, due uomini.
Dario, settantenne e Mansueto sulla cinquantina, fanno parte di quel gruppo di abitanti di Bondone che strenuamente e con coraggio hanno mantenuto e difeso una delle attività che caratterizzava il piccolo borgo fino agli anni ’70, ovvero il mestiere del carbonaio.Sedendosi nella loro piccola capanna è Dario che inizia a raccontare dei Carbonèr e parte come un fiume in piena nella sua narrazione, infatti lui, Carbonèr, lo è stato per davvero.76 anni e non sentirli, Dario ci parla della sua storia personale; con la sua famiglia almeno fino al 1957-58 vagava per le montagne del Trentino e della Lombardia portando avanti il lavoro del carbonaio. La sua non era l’unica famiglia di Bondone a fare questo lavoro, in quanto, praticamente tutti, uomini, donne e bambini, erano occupati in questa attività che ci sembra così lontana nel tempo.
Dario racconta che per almeno 9/10 mesi all’anno il paese si svuotava e rimanevano in paese circa 10/15 dei 750 abitanti che contava allora Bondone. Per produrre il carbone partivano intere famiglie, talora composte anche da 12/13 persone, “abbassando” prima i loro bagagli e gli attrezzi del lavoro con una teleferica da Bondone alla piazza di Baitoni, per poi scendere, genitori, figli e animali dalla scoscesa stradina per raggiungere la piana sottostante e partire alla volta di valli lontane in Lombardia o in Trentino.
Dario ricorda “uno dei problemi principali per i bambini era la scuola”, infatti i bambini potevano frequentarla solo per 3-4 mesi all’anno, dovendo poi partire con i genitori per fare il carbone; egli racconta che un parroco illuminato verso la fine degli anni ’50 mise in piedi un convitto per i bambini a Bondone, per poterli far studiare per più mesi all’anno".
Proseguendo nel chiedere a Dario com’era strutturata la giornata del Carbonèr scopriamo che “tutti davano una mano nel preparare il “poiàt”, bambini e anziani inclusi. Gli orari di lavoro variavano con la stagione ma di solito si iniziava a lavorare alle prime luci dell’alba, con una pausa breve alle 8.00 per la colazione a base di polenta, uova e latte e poi via fino alle 14.00, dove si faceva una merenda pranzo fino alle 16.00 per poi riprendere il lavoro fino a che non uscivano le stelle”. Con Chiara si scambiano sguardi sbalorditi, perché facendo due conti vuol dire lavorare circa 15/16 ore al giorno e Dario, capendo la nostra sorpresa, ci sottolinea che questo ritmo veniva tenuto praticamente tutti i giorni per almeno 9/10 mesi.
Chiedendo, ingenuamente a Dario dove e come passassero la notte i Carbonér e le loro famiglie lui risponde “Spesso si andava a dormire ancora vestiti e con la “ploètà” ancora addosso” e aggiunge “si dormiva su tavolati di legno, tutti vicini, coperti da pesanti coperte per sopportare il freddo notturno che in queste vallate alpine può essere molto pungente.
Infine, una domanda fondamentale: “Come si fa il carbone?”
“Tutta la legna era buona per fare il Carbone anche se il faggio era di sicuro il legname prediletto” risponde Dario “ma noi usavamo più spesso la legna di scarto abbattendo molto raramente piante. Facevamo sostanzialmente gli spazzini del bosco recuperando i rami degli abeti abbattuti dai boscaioli e costruendo con quello il poiàt, che vedete lì pronto per essere acceso”
Osservando intorno ai due Carbonér comprendiamo che il mucchio di terra nera posto sotto la capanna più grande è il “poiàt” ovvero il cumulo di legna, coperto poi da foglia, rami e terra che serve per compiere questa trasformazione, ovvero far bruciare la legna senza fiamma, producendo per l’appunto il fenomeno di carbonizzazione nel legname. Dario spiega “tre persone impiegano circa 3 o 4 giorni a preparare il legname e ad impilarlo nel “poiàt” mentre poi la “cotta” del carbone dura un ulteriore settimana; ogni cotta, ovvero circa 10 giorni di lavoro producevano 10 quintali di carbone". Nel 1957 il carbone di legna veniva venduto a 22 lire al chilo ovvero 31 centesimi di € attuali. Un enorme lavoro per circa 300€ di oggi giorno.
Sempre più incuriositi dal lavoro del Carbonèr, i nostri interlocutori ricordano la “Festa del Carbonaio” che come ogni anno da 25 anni a questa parte il 27-28 luglio si tiene presso Malga Alpo di Bondone e ove nella mattinata di sabato 27 luglio alle 5.00 di mattina sarà possibile vedere l’accensione del “poiàt” alla maniera “de cheì da Bondù”. Lì, in una dimostrazione aperta a tutti sarà possibile vedere la fase di accensione della carbonaia, che è una delle più impegnative e dove va prestata particolare attenzione al fatto che la legna non prenda fuoco.
Storie quelle dei Carbonér che sembrano uscite da un libro di favole, appaiono un “c’era una volta” immaginario, ma che sono invece storie che parlano di fatica, di attaccamento al territorio, di saperi nell’utilizzo delle risorse della natura. Storie dal passato che possono insegnare a noi, abitanti e visitatori della Riserva di Biosfera Alpi Ledrensi e Judicaria, che tenere vivo il nostro ambiente non “è culto delle ceneri” ma “custodia del fuoco”. Ma non troppo fuoco, altrimenti carbone non se ne fa.